E' chiaro che il pensiero dà fastidio...il pensiero come l'oceano non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare.
Così stanno bruciando il mare. Così stanno uccidendo il mare. Così stanno umiliando il mare. Così stanno piegando il mare.
- Com'è profondo il mare - Lucio Dalla

La tassa sulla povertà

Cambiare il significato delle parole è la prima cosa di cui si occupa una dittatura. Perché continuiamo a chiamarli giochi se non ci si diverte?

  • 01 Giu 2013
  • Categoria: Articoli
  • Tempo di lettura: 3 minuti, 14 secondi

Una delle armi più efficaci in grado di contrastare il bar è il dizionario. Molti degli inganni e delle sciocche convinzioni da bar, appunto, vengono veicolate attraverso un uso volutamente scorretto delle parole, ovvero del loro significato. Pensiamo alla parola gioco.

Dal dizionario Treccani:

giòco (letter. giuòco) s. m. [lat. iŏcus «scherzo, burla», poi «gioco»].
Qualsiasi attività liberamente scelta a cui si dedichino, singolarmente o in gruppo, bambini o adulti senza altri fini immediati che la ricreazione e lo svago…Pratica consistente in una competizione fra due o più persone, regolata da norme convenzionali, e il cui esito, legato spesso a una vincita in denaro, dipende in maggiore o minor misura dall’abilità dei singoli contendenti e dalla fortuna.

Ora proviamo ad uscire dalla scatola. Immaginiamo un alieno appena atterrato con la sua astronave in Italia. Immaginiamo che l’alieno venisse a scoprire che una delle attività più in voga tra gli abitanti di questa parte di pianeta sia il gioco. Così in voga da finanziare le casse dello stato con 70 miliardi di euro nei primi dieci mesi del 2012 (dato reale aams). Cosa penserebbe l’alieno? Probabilmente penserebbe di aver trovato un paradiso, un posto dove tutti dedicano gran parte del tempo e delle proprie risorse in divertimento, in momenti di svago e di ricreazione. Che bello!

Le cose stanno veramente così? Ovvio che no.

E’ sufficiente andare in un bar o in una tabaccheria per vedere chi sono coloro che “giocano” con i videopoker, gratta e vinci, lotto, enalotto etc. Spesso sono persone tristi, silenziose, rassegnate, ferme nella convinzione che ci sia una logica risolutiva dietro a tutto, convinte che ragionando e riflettendo si possano guadagnare soldi con quelle trappole. E’ evidente che la parola gioco è un abuso, infatti oltre a non esserci il lato ludico (le persone non si divertono bensì spesso si esauriscono, si stressano, si umiliano) manca anche la parte di abilità. A rileggere la definizione di gioco riportata sopra emerge che la vittoria ad un gioco dipende sia dalla fortuna sia dall’abilità. Quale abilità c’è nel premere un pulsante, nel grattare un pezzo di carta o nello scegliere numeri?

Sono certo che nessuno degli ideatori di queste trappole ha mai minimamente pensato che la definizione giusta fosse gioco. Anzi hanno messo in campo ogni sottile arguzia pur di ingannare la vittima. A partire dalle luci luminose dei videopoker le quali, secondo esperti del settore, hanno la funzione di inibire il ragionamento, proseguendo con i nomi dei “gratta e vinci” (Turista per sempre, Win for life, Il milionario, ecc). Una comunicazione persuasiva estrema e puntuale che trova riscontro nelle cifre che ho citato prima.

E perché allora li hanno chiamati giochi? Facile, non avrebbero mai incassato i stessi soldi se l’avessero chiamati con il loro vero nome: TASSA SULLA POVERTA’. Tutta la faccenda questo è, una tassa sulla povertà, povertà di pensiero, una forma di sottocultura che miete vittime ogni anno. Persone che credono che ci siano posti più fortunati di altri, numeri più fortunati di altri, altro non sono che persone semplici le quali rappresentano il desiderio inconfessato di quei furbi che guadagnano grazie alle sciocche speranze del popolo.

Il fatto che a guadagnarci sia lo Stato è quello che più mi indigna. E’ pur vero che la tassa sulla povertà è una tassa non obbligatoria (io non l’ho mai pagata) ma è altrettanto vero che uno Stato non deve approfittare delle mancanze e dei vizi dei suoi cittadini. Facciamo un esempio: un padre alla prese con un figlio diabetico ma anche goloso, non sarebbe un buon padre se riempisse le credenze di casa con dolciumi e merendine. Un buon padre si metterebbe dalla parte del figlio e, oltre ad educarlo a non cedere alle tentazioni, farebbe in modo che questi non le debba affrontare ogni giorno.

Ecco come vorrei fosse lo stato, vorrei fosse padre.
Padre e non padrone.
Noi cittadini figli, e non schiavi.

Lascia un commento